Mostra collettiva a cura di Luca Andreoni, realizzata grazie al sostegno della Fondazione CRT ed alla collaborazione della Cittadella dei giovani di Aosta (17-26 settembre 2010).
Si propone qui di seguito il testo curatoriale di Luca Andreoni
Il "caso" Cervinia è uno dei più interessanti del panorama alpino. Nata e cresciuta da una spinta tutta turistica e urbana, ha incorporato in sé già fin dagli anni Trenta molte delle caratteristiche e delle contraddizioni che oggi interessano tutto l'arco alpino. L'urbanizzazione ex novo di un luogo mai abitato prima, le architetture moderne, gli impianti di sci, il fenomeno delle seconde case, lo spopolamento del 'fuori stagione', la montagna come parco di divertimenti o come sfondo iconico, il distacco radicale dalle abitudini della vita valligiana... con molti altri, questi sono temi per i quali Cervinia da decenni rappresenta una sorta di laboratorio nel quale seguire direttamente le evoluzioni e gli scarti di questi fenomeni. E se forse è eccessivo citare quanto ebbe a dire Le Corbusier di New York, quando la definì "una catastrofe al rallentatore", non c'è dubbio che oggi sia sempre più necessario rivolgere uno sguardo attento e aggiornato a questi fenomeni, per imparare da essi e per immaginarne i futuri possibili.
Un gruppo di giovani talenti, selezionati da alcune delle migliori scuole di fotografia italiane, ha posato il proprio sguardo proprio su Cervinia, all'interno di un progetto che assegna loro un anno di tempo per realizzare liberamente una ricerca personale, basata sugli stimoli e le riflessioni maturati durante una prima settimana di residenza a Cervinia. I risultati di tanto lavoro dimostrano - con freschezza di sguardo e grande libertà espressiva - che Cervinia è luogo di grande fascino anche per i più giovani, e che la sua complessità è fonte di stimoli narrativi mai banali.
Nel lavoro di Francesca Catastini l'apparente rappresentazione romantica del paesaggio viene turbata da un intervento digitale tanto sottile quanto ironico e aggressivo: rimuovendo dai paesaggi quasi ogni traccia degli interventi umani, siano questi sul Plateau Rosa o nella piana stessa dove sorge Cervinia, ci viene consegnata una sorta di grado zero della situazione, che allude anche a nuove possibilità di trasformazione oltre che della memoria di una condizione del passato.
La presenza turistica viene mostrata da Michele Coppari in modo sferzante, addirittura accoppiandola ad un parallelo lavoro di ritratto realizzato nello stesso periodo sulle spiaggie italiane, quasi a dimostrare l'odierna intercambiabilità dei luoghi di svago per una platea turistica sempre più veloce e globalizzata, che spesso ha una percezione stravolta dei luoghi che visita.
Con grande sensibilità Giuseppe Fanizza si è mosso in Cervinia in luoghi spesso ambiguamente a cavallo tra l'essere interni ed esterni, e che testimoniano l'essenza urbana di Cervinia. Sono punti non esenti da inquietudini, quasi possibili location per gli eventi di un noir americano, sospesi e vuoti, in attesa.
Maria Aurelia Lattaruli si è occupata del fenomeno delle seconde case, esploso negli anni Sessanta e Settanta, oggi in profonda crisi, utilizzando dei frammenti di un campione rappresentativo: un appartamento nel quale ha individuato, con grande precisione e silenzio, le tracce di un'attitudine all'abitare la 'casa di vacanza' tipica di quegli anni.
Il lavoro di Giovanni Scotti rappresenta le parti nascoste di una attività cruciale per Cervinia, quello dei grandi impianti delle funivie. Scotti ci mostra quello che le migliaia di sciatori non possono vedere, ossia la tecnologia avanzata che controlla il funzionamento di questi impianti. E ce lo mostra in modo assolutamente iperrealistico, usando anch'egli una tecnologia moderna, quella del 3D, che paradossalmente si riallaccia però a tanta fotografia dell'Ottocento, che con la stereoscopia aveva contribuito proprio alla massificazione del linguaggio fotografico.
Giulia Ticozzi si è mossa, con due diversi lavori, su due piani profondamente diversi: l'uno, basato sulla delicatezza delle proprie sensazioni interiori, espone raffinate campiture cromatiche, che alludono alle sensazioni e alla matericità del paesaggio; l'altro, "Cervino mon amour", totalmente aperto all'esterno, utilizza il Web per formarsi autonomamente, quasi a prescindere dall'autore, che si limita a fornire le linee guida di un blog che invita tutti a inviare immagini 'trovate' della grande icona che sovrasta Cervinia - appunto, il Cervino.
I residenti di Cervinia, in particolare le donne, sono il soggetto del lavoro di Vanessa Vettorello, che con sensibilità e attenzione ha avvicinato alcune delle poche persone che risiedono stabilmente a Cervinia - non più di ottocento, a fronte di una popolazione di quasi ventimila persone nei momenti clou della stagione. Con curiosità sociologica ed evidente empatia Vettorello ci indica al tempo stesso un problema e la sua soluzione, perché spesso oggi sono proprio le donne a saperci indicare i punti cruciali dove si incrociano le permanenze e le evoluzioni, quei punti insomma dove si disegna il futuro.
www.flickr.com
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lunedì 27 settembre 2010
venerdì 24 settembre 2010
MPF 2010 - Sezione contemporary - "ALP_AGE" di Luigi Gariglio
ALP_AGE è un progetto di fotografie e video di Luigi Gariglio, realizzato su incarico del Mountain Photo Festival di Aosta in collaborazione con Contrasto. Curato da Francesco Zanot, il lavoro è esposto presso il Centro Espositivo di Etroubles dal 18 al 26 settembre.
ALP_AGE è una complessa esplorazione visiva che prende avvio da una riflessione sul territorio montano e sulla comunità della Valle d’Aosta, sviluppandosi in direzioni ulteriori e molteplici. ALP_AGE non è un percorso concluso, ma al contrario, iniziato lo scorso luglio dopo alcune indagini preliminari, si trova attualmente in una fase di precisazione, crescita e approfondimento.
La mostra presentata al centro espositivo di Etroubles include tre dittici di grandi dimensioni raffiguranti il paesaggio valdostano percorso dalle mandrie salite dagli alpeggi, due filmati e circa sessanta immagini di famiglia sparse a parete in stampe di piccolo formato realizzate presso un laboratorio non professionale allo scopo di mimare le tipiche modalità di produzione di questa tipologia di materiale. Nell’allestimento, le fotografie di famiglia riferite al gruppo di persone incontrato sugli alpeggi sono mescolate fra loro e con le immagini familiari dello stesso Luigi Gariglio, riproducendo a parete la condizione di vicinanza e condivisione, realizzatasi per una parte di questo progetto fra il fotografo, divenuto osservatore partecipante, e i propri soggetti. Il pavimento della sala espositiva è coperto con uno strato di fieno, il cui odore introduce un ulteriore elemento sensoriale per l’immersione del pubblico nel contesto rappresentato. Questo intervento installativo, che si configura peraltro come un omaggio alla pratica artistica di Giuseppe Penone, fa sì che lo stesso respiro dello spettatore faccia parte della sua esperienza di quest’opera. Ad introduzione della mostra è posto un pannello di cui si riporta a seguire il testo integrale.
FZ: Ciao Luigi. Scusami se ti disturbo a quest’ora.
LG: Ciao. Dimmi.
FZ: Dobbiamo mettere insieme un testo per il pannello introduttivo della mostra, con le principali informazioni riguardo questo lavoro e una serie di indicazioni che possano essere utili agli spettatori per la visita dell’esposizione.
LG: Va bene.
FZ: Innanzitutto farei presente il fatto che si tratta di un lavoro “in progress”, dell’inizio di una ricerca più ampia che si deve ulteriormente sviluppare. Diciamo che è un progetto che deve approfondirsi e proseguire. Poi mettiamo a fuoco il punto di partenza di questo incarico: gli alpeggi della Valle d’Aosta. Scriviamo che tutto ha avuto inizio dall’interesse nei confronti della particolare situazione attuale per cui i lavoratori stagionali che vengono impiegati negli alpeggi durante l’estate non sono più in gran parte locali, ma provengono dall’estero, soprattutto dal Nord Africa e dall’Europa dell’Est. Dico bene?
LG: E’ vero. Però, come dici tu, questo è stato soltanto lo stimolo che ha dato avvio al progetto, mentre poi mi sono concentrato su molto altro. Non si tratta di un lavoro di ricerca scientifica. Naturalmente ci sono spunti di carattere sociologico, antropologico, anche politico, ma i risultati vanno in un’altra direzione. Il risultato è un lavoro molto personale.
FZ: Riguardo lo specifico del lavoro, la sua struttura, direi innanzitutto che si sviluppa secondo due direttrici. Da una parte ci sono le fotografie e i video centrati sulla rappresentazione del territorio, attraversato dai pascoli in lontananza, dall’altra c’è una raccolta di fotografie di famiglia, in parte tue e in parte selezionate fra quelle degli stessi proprietari e lavoratori degli alpeggi, attraverso le quali emergono fra l’altro alcuni elementi delle tradizioni locali. Dico tutto questo per semplicità, perché in realtà a me non sembra che ci sia una divisione netta fra queste due parti in cui è organizzato il lavoro. Non credi?A me sembra che questo lavoro funzioni nel suo insieme, come agglomerato di stimoli differenti e complementari, come accumulazione di suggestioni e informazioni…
LG: Sì, poi un aspetto importante da specificare è che, nel caso del repertorio per così dire familiare, si tratta di immagini da me rifotografate. Sono fotografie di fotografie. In questo senso spesso ho tagliato, reinquadrandole, le immagini originali, i formati non sono quelli delle stampe di partenza, e così via. Ci sono una serie di interventi, di variazioni, di interpretazioni che ho esercitato sulle fotografie che ho trovato o mi sono state proposte. Si tratta di vere e proprie rielaborazioni. Fondamentale è anche un ulteriore aspetto cui hai fatto cenno: il folclore, vale a dire le attività tipiche della vita negli alpeggi, emergono direttamente dai materiali d’archivio. E’ una sorta di reportage autoctono, autoprodotto e preesistente.
FZ: Fra l’altro, il fatto che tu abbia messo insieme le fotografie della tua famiglia con quelle appartenenti ai residenti temporanei o permanenti di questi luoghi, riproduce un senso di totale condivisione con la gente del contesto su cui hai lavorato. In fondo, tu sei soltanto un fotografo fra i tanti fotografi “anonimi” che hanno ripreso ciascuna singola immagine.
LG: E’ un aspetto di cui ho molto discusso con le stesse persone che ho incontrato sugli alpeggi e che hanno contribuito a questo progetto portandomi le fotografie delle proprie famiglie. Chiedevo ad ognuno di loro se fossero d’accordo sul fatto che anch’io introducessi le mie immagini domestiche nella sequenza finale. In fondo dovevamo condividere uno spazio di confidenza. Era come se si stessero spogliando di fronte a me, mostrandomi alcuni frammenti della loro storia, anche se naturalmente mi hanno dato accesso soltanto a una parte limitata di questo immaginario, frutto di una preselezione che era avvenuta lontano da me. D’altra parte, è quello che ho fatto anch’io…
LG: (il giorno dopo via e-mail in risposta al testo proposto) … Aggiungerei, toglierei e rielaborerei diverse parti di quelle che sono state le mie risposte. Il carattere schietto e diretto di questa tua “intercettazione telefonica” del nostro colloquio, che credevo fosse solo una semplice telefonata del curatore, ha però un tono molto privato, forse intimo, che mi affascina e mi pare adeguato. Malgrado tutto, quindi, accetto di buon grado la tua proposta di utilizzare questa trascrizione come introduzione alla mostra, chiedendoti solo di inserire nel testo anche questa mia nota. Grazie. Luigi
ALP_AGE è una complessa esplorazione visiva che prende avvio da una riflessione sul territorio montano e sulla comunità della Valle d’Aosta, sviluppandosi in direzioni ulteriori e molteplici. ALP_AGE non è un percorso concluso, ma al contrario, iniziato lo scorso luglio dopo alcune indagini preliminari, si trova attualmente in una fase di precisazione, crescita e approfondimento.
La mostra presentata al centro espositivo di Etroubles include tre dittici di grandi dimensioni raffiguranti il paesaggio valdostano percorso dalle mandrie salite dagli alpeggi, due filmati e circa sessanta immagini di famiglia sparse a parete in stampe di piccolo formato realizzate presso un laboratorio non professionale allo scopo di mimare le tipiche modalità di produzione di questa tipologia di materiale. Nell’allestimento, le fotografie di famiglia riferite al gruppo di persone incontrato sugli alpeggi sono mescolate fra loro e con le immagini familiari dello stesso Luigi Gariglio, riproducendo a parete la condizione di vicinanza e condivisione, realizzatasi per una parte di questo progetto fra il fotografo, divenuto osservatore partecipante, e i propri soggetti. Il pavimento della sala espositiva è coperto con uno strato di fieno, il cui odore introduce un ulteriore elemento sensoriale per l’immersione del pubblico nel contesto rappresentato. Questo intervento installativo, che si configura peraltro come un omaggio alla pratica artistica di Giuseppe Penone, fa sì che lo stesso respiro dello spettatore faccia parte della sua esperienza di quest’opera. Ad introduzione della mostra è posto un pannello di cui si riporta a seguire il testo integrale.
FZ: Ciao Luigi. Scusami se ti disturbo a quest’ora.
LG: Ciao. Dimmi.
FZ: Dobbiamo mettere insieme un testo per il pannello introduttivo della mostra, con le principali informazioni riguardo questo lavoro e una serie di indicazioni che possano essere utili agli spettatori per la visita dell’esposizione.
LG: Va bene.
FZ: Innanzitutto farei presente il fatto che si tratta di un lavoro “in progress”, dell’inizio di una ricerca più ampia che si deve ulteriormente sviluppare. Diciamo che è un progetto che deve approfondirsi e proseguire. Poi mettiamo a fuoco il punto di partenza di questo incarico: gli alpeggi della Valle d’Aosta. Scriviamo che tutto ha avuto inizio dall’interesse nei confronti della particolare situazione attuale per cui i lavoratori stagionali che vengono impiegati negli alpeggi durante l’estate non sono più in gran parte locali, ma provengono dall’estero, soprattutto dal Nord Africa e dall’Europa dell’Est. Dico bene?
LG: E’ vero. Però, come dici tu, questo è stato soltanto lo stimolo che ha dato avvio al progetto, mentre poi mi sono concentrato su molto altro. Non si tratta di un lavoro di ricerca scientifica. Naturalmente ci sono spunti di carattere sociologico, antropologico, anche politico, ma i risultati vanno in un’altra direzione. Il risultato è un lavoro molto personale.
FZ: Riguardo lo specifico del lavoro, la sua struttura, direi innanzitutto che si sviluppa secondo due direttrici. Da una parte ci sono le fotografie e i video centrati sulla rappresentazione del territorio, attraversato dai pascoli in lontananza, dall’altra c’è una raccolta di fotografie di famiglia, in parte tue e in parte selezionate fra quelle degli stessi proprietari e lavoratori degli alpeggi, attraverso le quali emergono fra l’altro alcuni elementi delle tradizioni locali. Dico tutto questo per semplicità, perché in realtà a me non sembra che ci sia una divisione netta fra queste due parti in cui è organizzato il lavoro. Non credi?A me sembra che questo lavoro funzioni nel suo insieme, come agglomerato di stimoli differenti e complementari, come accumulazione di suggestioni e informazioni…
LG: Sì, poi un aspetto importante da specificare è che, nel caso del repertorio per così dire familiare, si tratta di immagini da me rifotografate. Sono fotografie di fotografie. In questo senso spesso ho tagliato, reinquadrandole, le immagini originali, i formati non sono quelli delle stampe di partenza, e così via. Ci sono una serie di interventi, di variazioni, di interpretazioni che ho esercitato sulle fotografie che ho trovato o mi sono state proposte. Si tratta di vere e proprie rielaborazioni. Fondamentale è anche un ulteriore aspetto cui hai fatto cenno: il folclore, vale a dire le attività tipiche della vita negli alpeggi, emergono direttamente dai materiali d’archivio. E’ una sorta di reportage autoctono, autoprodotto e preesistente.
FZ: Fra l’altro, il fatto che tu abbia messo insieme le fotografie della tua famiglia con quelle appartenenti ai residenti temporanei o permanenti di questi luoghi, riproduce un senso di totale condivisione con la gente del contesto su cui hai lavorato. In fondo, tu sei soltanto un fotografo fra i tanti fotografi “anonimi” che hanno ripreso ciascuna singola immagine.
LG: E’ un aspetto di cui ho molto discusso con le stesse persone che ho incontrato sugli alpeggi e che hanno contribuito a questo progetto portandomi le fotografie delle proprie famiglie. Chiedevo ad ognuno di loro se fossero d’accordo sul fatto che anch’io introducessi le mie immagini domestiche nella sequenza finale. In fondo dovevamo condividere uno spazio di confidenza. Era come se si stessero spogliando di fronte a me, mostrandomi alcuni frammenti della loro storia, anche se naturalmente mi hanno dato accesso soltanto a una parte limitata di questo immaginario, frutto di una preselezione che era avvenuta lontano da me. D’altra parte, è quello che ho fatto anch’io…
LG: (il giorno dopo via e-mail in risposta al testo proposto) … Aggiungerei, toglierei e rielaborerei diverse parti di quelle che sono state le mie risposte. Il carattere schietto e diretto di questa tua “intercettazione telefonica” del nostro colloquio, che credevo fosse solo una semplice telefonata del curatore, ha però un tono molto privato, forse intimo, che mi affascina e mi pare adeguato. Malgrado tutto, quindi, accetto di buon grado la tua proposta di utilizzare questa trascrizione come introduzione alla mostra, chiedendoti solo di inserire nel testo anche questa mia nota. Grazie. Luigi
MPF 2010 - Sezione contemporary - "Non si fa in tempo ad avere paura" di Luca Andreoni
Fondation Grand Paradis (Villaggio minatori, Cogne) - 17/26 settembre 2010
Non si fa in tempo ad aver paura è una trilogia realizzata da Luca Andreoni (visita il suo sito) fra il 2005 e il 2009, composta dalle serie Tunnel (2005-2006), Orridi (2007) e Crepacci (2009). Il lavoro prende il titolo da una poesia di Gianni Rodari e si sviluppa in una struttura che rimanda alla Commedia dantesca, seppure qui la successione di inferno, purgatorio e paradiso non corrisponda a un’ascesa, ma tutto si svolge nelle profondità del pianeta e delle sue montagne, nei suoi antri più bui, che siano naturali o artificiali, circondati di roccia oppure di ghiaccio. Qui, sul fondo del visibile, si svolge un poema scandito da dettagli minimi, sfumature di colore, riferimenti simbolici, attraverso un lento passaggio narrativo e visivo che finisce per affermarsi come il nodo centrale dell’intera opera, perché ogni cosa, pure ogni cosa fotografata, cambia e si trasforma incessantemente.
Il viaggio ha inizio con gli spazi costruiti dei tunnel stradali. Le fotografie della serie Tunnel offrono l’insolita possibilità di osservare con uno sguardo prolungato e contemplativo luoghi che al contrario costituiscono normalmente il contesto di veloci attraversamenti automobilistici. Così, attraverso un radicale mutamento della fruizione di queste gigantesche cavità artificiali, cambia la nostra percezione: i colori saturi dei neon e le forme sinuose delle gallerie danno vita a scenari infernali, scavati dentro la superficie della terra o nascosti nei più remoti recessi della nostra mente.
La serie Orridi, seconda sosta di questo percorso, testimonia il tormento di millenni di erosione inflitti alla roccia dall'incessante scorrere dell'acqua. L'etimologia stessa della parola del titolo, che deriva dal latino horridus e significa orribile, orrendo, spaventoso, selvaggio, rimanda allo sgomento che soltanto la natura, nella sua grandezza originaria, è in grado di trasmettere. Eppure l’uomo, nella sua incessante ossessione per il controllo e la conquista, è riuscito a domare anche questi abissi, fino a renderli facilmente praticabili. I ponti, le passerelle, le scalette di ferro divengono così metafora dell’umano tentativo di superare i propri limiti ed esorcizzare la propria paura.
Ultima tappa di questo lento viaggio nel profondo, le fotografie della serie Crepacci sono il frutto di un lungo lavoro sulle pendici del Monte Bianco. Il ghiaccio, soggetto unico delle immagini, sembra aprirsi di fronte al nostro sguardo e allo stesso tempo inghiottire fotografo e spettatore nel ventre di una materia dura e fredda, ma allo stesso tempo sensuale. La sua superficie è in continua trasformazione, prima trasparente, poi opaca e viceversa, e assume con la densità sfumature di azzurro e di blu, fino a riempirsi di nero nei punti più profondi o accendersi di un bianco accecante negli spiragli aperti verso l’alto. Come osserva Amelia Valtolina in Blu e Poesia, il blu è il “colore dell’unio mentalis alchemica, della congiunzione tra logos e psyché”. Nel blu sono compresi il nero del dolore e il bianco del pensiero puro. Allo stesso modo, di fronte a queste fotografie, il terrore che i crepacci suscitano per natura coesiste con il fascino esercitato da tanta grandiosa bellezza.
Non si fa in tempo ad aver paura è una trilogia realizzata da Luca Andreoni (visita il suo sito) fra il 2005 e il 2009, composta dalle serie Tunnel (2005-2006), Orridi (2007) e Crepacci (2009). Il lavoro prende il titolo da una poesia di Gianni Rodari e si sviluppa in una struttura che rimanda alla Commedia dantesca, seppure qui la successione di inferno, purgatorio e paradiso non corrisponda a un’ascesa, ma tutto si svolge nelle profondità del pianeta e delle sue montagne, nei suoi antri più bui, che siano naturali o artificiali, circondati di roccia oppure di ghiaccio. Qui, sul fondo del visibile, si svolge un poema scandito da dettagli minimi, sfumature di colore, riferimenti simbolici, attraverso un lento passaggio narrativo e visivo che finisce per affermarsi come il nodo centrale dell’intera opera, perché ogni cosa, pure ogni cosa fotografata, cambia e si trasforma incessantemente.
Il viaggio ha inizio con gli spazi costruiti dei tunnel stradali. Le fotografie della serie Tunnel offrono l’insolita possibilità di osservare con uno sguardo prolungato e contemplativo luoghi che al contrario costituiscono normalmente il contesto di veloci attraversamenti automobilistici. Così, attraverso un radicale mutamento della fruizione di queste gigantesche cavità artificiali, cambia la nostra percezione: i colori saturi dei neon e le forme sinuose delle gallerie danno vita a scenari infernali, scavati dentro la superficie della terra o nascosti nei più remoti recessi della nostra mente.
La serie Orridi, seconda sosta di questo percorso, testimonia il tormento di millenni di erosione inflitti alla roccia dall'incessante scorrere dell'acqua. L'etimologia stessa della parola del titolo, che deriva dal latino horridus e significa orribile, orrendo, spaventoso, selvaggio, rimanda allo sgomento che soltanto la natura, nella sua grandezza originaria, è in grado di trasmettere. Eppure l’uomo, nella sua incessante ossessione per il controllo e la conquista, è riuscito a domare anche questi abissi, fino a renderli facilmente praticabili. I ponti, le passerelle, le scalette di ferro divengono così metafora dell’umano tentativo di superare i propri limiti ed esorcizzare la propria paura.
Ultima tappa di questo lento viaggio nel profondo, le fotografie della serie Crepacci sono il frutto di un lungo lavoro sulle pendici del Monte Bianco. Il ghiaccio, soggetto unico delle immagini, sembra aprirsi di fronte al nostro sguardo e allo stesso tempo inghiottire fotografo e spettatore nel ventre di una materia dura e fredda, ma allo stesso tempo sensuale. La sua superficie è in continua trasformazione, prima trasparente, poi opaca e viceversa, e assume con la densità sfumature di azzurro e di blu, fino a riempirsi di nero nei punti più profondi o accendersi di un bianco accecante negli spiragli aperti verso l’alto. Come osserva Amelia Valtolina in Blu e Poesia, il blu è il “colore dell’unio mentalis alchemica, della congiunzione tra logos e psyché”. Nel blu sono compresi il nero del dolore e il bianco del pensiero puro. Allo stesso modo, di fronte a queste fotografie, il terrore che i crepacci suscitano per natura coesiste con il fascino esercitato da tanta grandiosa bellezza.
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